La coprogettazione è ad oggi lo strumento di amministrazione condivisa tra pubblica amministrazione e Terzo settore più diffuso, ma cresce il bisogno di linee di indirizzo programmatiche chiare. Ecco perché
Articolo pubblicato su Welforum.it il 23 settembre 2021
Come una veloce ricerca internet può confermare, il notevole interesse per gli strumenti dell’amministrazione condivisa stimolato dall’art. 55 del codice del Terzo settore e diffusosi nell’ultimo biennio si è tradotto in gran parte in esperienze di coprogettazione e solo in misura assai minore in tentativi di coprogrammazione. Perché ciò è avvenuto, dal momento che, a rigor di logica, sarebbe ragionevole presumere che amministrazioni pubbliche e Terzo settore interessati ad esperienze collaborative partissero a coprogrammare, per solo successivamente, poi, coprogettare? E dal momento che la prassi di collaborazione storicamente più diffusa in ambito welfare in tempi relativamente recenti erano stati i Piani di Zona, di fatto una pratica per molti versi sovrapponibile alla coprogrammazione prevista dalla riforma del Terzo settore? E perché, al tempo stesso, è ragionevole ritenere che nel 2022 l’attuale sproporzione tra i due principali strumenti di amministrazione condivisa sia destinata almeno parzialmente a riequilibrarsi?
Secondo l’articolo 55 del dlgs 117/2017 (Codice del Terzo settore), la coprogrammazione consiste nell’individuazione dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili. Si tratta quindi di definire quali tipi di interventi attivare sulla base dei bisogni rilevati. La coprogettazione riguarda invece la definizione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni ben definiti, anche grazie alla coprogrammazione. Entrambi questi strumenti coinvolgono tutte le amministrazioni pubbliche in tutti i “settori di interesse generale”: non solo quindi quelli tipicamente legati al welfare (sociale, sociosanitario), ma un insieme di 26 ambiti (art. 5 del dlgs 117/2017) che vanno dal welfare alla salute, dalla formazione e educazione ai servizi per l’impiego, dalla cooperazione allo sviluppo alla promozione della cultura della legalità e così via. In tutti questi ambiti, afferma l’art. 117/2017, tutti gli enti pubblici assicurano il coinvolgimento degli enti di Terzo settore attraverso la coprogrammazione e la coprogettazione.
Seguendo la linea evolutiva dei Piani di Zona nei due decenni passati, la prima osservazione è che ad essere mortificata, almeno sino a tempi molto recenti, più che la coprogrammazione, sia stata la programmazione in quanto tale. I motivi sono riconducibili alle disponibilità economiche per il welfare calanti sino ad azzerarsi degli anni 2008 – 2012 sia sul fronte nazionale che locale; e, anche per le non cospicue risorse esistenti, la poca programmabilità anche in orizzonti medio brevi (due o tre anni); lo schiacciamento dei servizi sulle urgenze e marcato approccio prestazionale. Tutti motivi che hanno portato ad un declino della programmazione dopo la fase di entusiasmo collettivo di metà anni Novanta.
Il Terzo settore, da parte sua, è stato coinvolto nell’ubriacatura competitiva prestazionale, enfatizzando quindi il proprio ruolo gestionale e di conseguenza mostrandosi tiepido rispetto all’impegnarsi in modo significativo e competente nella programmazione. Non senza alcune rimarchevoli eccezioni, tutto ciò ha portato ad una diffusa caduta di interesse della programmazione che si è tradotta in alcuni territori nella caduta in desuetudine dei Piani di Zona e in molti altri, comunque, nella marginalizzazione di tali strumenti.
Quando, in anni recenti, si è assistito all’inedita diffusione della collaborazione sulla scia delle previsioni dell’art. 55 del codice del Terzo settore, ciò non si è tradotto, in prima istanza, nella rinascita di strumenti di coprogrammazione, ma in esperienze di coprogettazione: l’immediatezza di “cose da fare insieme”, della praticità che consente di avere immediatamente contezza degli esiti positivi della collaborazione, è evidentemente risultata più attrattiva, viste anche le incertezze sul fronte della coprogrammazione sopra richiamate. Vi è da dire, per completezza, che in molti casi tali coprogettazioni incorporano anche elementi programmatori: hanno, nei casi virtuosi, una configurazione molto aperta, destinata a includere anche parti non secondarie della lettura dei bisogni tipica della coprogrammazione o prevedono luoghi (es. “cabine di regia”) dove di fatto i diversi filoni progettuali sono ricondotti ad un quadro unitario non lontano ad una logica di programmazione.
E ora, cosa sta accadendo?
Negli ultimi mesi, come indicato in premessa, accanto alla ulteriore diffusione delle esperienze di coprogettazione, si assiste ad una progressiva crescita della coprogrammazione, sia dal punto di vista delle effettive pratiche, sia dell’interesse culturale per il tema, come mostrano le richieste di attivare iniziative formative sul tema o gli articoli pubblicati su riviste di settore.
Le esperienze positive di collaborazione hanno senz’altro stimolato il desiderio dei protagonisti di sperimentarsi anche su terreni non immediatamente operativi, anche a partire dalla constatazione dell’incompletezza di un percorso che preveda di confrontarsi sull’operatività senza avere prima condiviso, in sede di coprogrammazione, l’importanza di dedicarsi ad un determinato progetto.
È vero che, da un punto di vista teorico, ci si sarebbe atteso il percorso contrario – prima si coprogramma, poi eventualmente si coprogetta – ma, a ben vedere, una volta che la dinamica si è attivata e si è diffusa la consapevolezza dell’importanza di entrambi questi strumenti, il punto di partenza iniziale diventa non così rilevante. Si aggiunga che, mentre la coprogettazione deve fare i conti con la possibile scelta alternativa basata sulla competizione (affidare i servizi tramite appalto), una volta che si acquisisca a livello culturale il valore positivo della collaborazione non vi sono motivi validi per non coprogrammare, fatto salvo il fatto di indirizzare le energie partecipative (non infinite, vedi questo articolo) sugli aspetti di maggiore rilievo. Dunque, sembra legittimo attendersi nei prossimi mesi un significativo sviluppo di esperienze di coprogrammazione.
Come si può intuire da quanto sino a ora detto, si tratta di eventi molto recenti e quindi è normale che le pratiche facciano sorgere via via nuove domande e potenziali criticità sulle quali intervenire.
Un primo nodo riguarda la capacità di intendere la coprogrammazione come procedimento teso a pervenire a scelte ben definite e non come mero confronto interlocutorio sui caratteri auspicabili degli interventi sociali. Talvolta si leggono documenti finali di coprogrammazione che mettono in luce elementi certamente importanti relativi alle caratteristiche degli interventi, ad esempio il fatto che gli interventi debbano essere più individualizzati, meno settoriali, più centrati sulla persona, ispirati a logiche di prossimità, ecc.: tutte affermazioni peraltro condivisibili e che trovano cittadinanza entro una coprogrammazione, che come ricordato, ha tra le proprie finalità la definizione appunto delle “modalità di realizzazione” degli interventi quali quelle qui richiamate. Ma ciò dovrebbe avvenire insieme a indicazioni precise sui bisogni prioritari, sugli interventi di conseguenza da attivare e sulle risorse da mobilitare. Insomma, una coprogrammazione è chiamata a assumere delle scelte, ad affermare che un certo bisogno è più urgente di altri, che di conseguenza determinati interventi vanno potenziati ed altri abbandonati. Che le risorse note vanno destinate in una certa proporzione a determinati bisogni e conseguenti interventi e in un’altra proporzione ad altri; e che altri interventi ancora sono, per quanto forse utili, non prioritari e quindi, ad esempio, verranno attivati solo se saranno individuate risorse aggiuntive. Certamente tutto ciò è molto impegnativo, ma la programmazione comporta senz’altro ascolto, confronto, condivisione, ma anche scelte, non sempre semplici.
Un secondo nodo, connesso al primo, riguarda le risorse. Al di là degli aspetti giuridici, ha senso, per una pubblica amministrazione, avviare una coprogrammazione senza dire nulla relativamente alle risorse che si impegna a destinare? Si potrebbe in linea di principio rispondere positivamente: prima si delineino al meglio i bisogni, solo dopo si ragionerà sulle risorse. Ma la realtà è che una coprogrammazione che non dica nulla su quanto le istituzioni sono determinate ad investire su un certo tema rischia di essere fragile, mentre la presenza di risorse documenta chiaramente e trasmette al terzo settore la serietà degli intenti dell’amministrazione.
Un terzo nodo è relativo alla qualità della coprogrammazione. Il tema presenta declinazioni diverse ed è di particolare rilievo se si considera lo scenario di partenza, quello di una programmazione spesso divenuta desueta sia per il Terzo settore sia, talvolta, per l’ente pubblico. Una coprogrammazione di qualità non può prescindere da una cultura del dato – che va raccolto, ragionato, condiviso – e più in generale da un significativo sforzo di ricerca e approfondimento; in altre parole, detto senza mezzi termini, una coprogrammazione che si fondi sulla condivisione dei luoghi comuni che affollano la mente dei partecipanti, difficilmente può arrivare lontano. Ma accanto al quadro conoscitivo, vi è chi (Fazzi 2021) richiama con forza la necessità di inserire nel processo di programmazione punti di vista inediti e non riconducibili solo a quelli istituzionali dei servizi: si tratta cioè di integrare in primo luogo visioni e priorità dei destinatari dei servizi entro un quadro organizzativo non troppo ingessato da standard e prescrizioni, tale cioè da essere permeabile al cambiamento. Entrambi questi elementi ci inducono a pensare che, né dal punto di vista dell’ente pubblico, né del Terzo settore, la coprogrammazione possa essere improvvisata o estemporanea: richiede al contrario scelte organizzative non scontate, energie, assunzione di prospettive culturali inedite.
Nella progressiva diffusione degli strumenti di amministrazione condivisa, vi sono ragioni per credere che i prossimi mesi la coprogrammazione raccoglierà un sempre maggiore interesse. Da una parte lo scenario di inconsistenza per le risorse destinate al welfare sembra essere mutato e i principali fondi nazionali hanno assunto carattere strutturale nel bilancio dello Stato; forse non a caso nelle scorse settimane è stato dopo molti anni nuovamente diffuso un Piano nazionale delle politiche sociali nel quale, tra l’altro, si tenta, seppure in modo ancora iniziale, di riproporre il tema dei livelli essenziali delle prestazioni. Dall’altra, le prime esperienze di amministrazione condivisa stanno spingendo i protagonisti pubblici e di Terzo settore a trovare forme di collaborazione ulteriori rispetto alla coprogettazione di specifici progetti di intervento.
Ciò può sicuramente portare ad un rinnovato interesse per le forme di coprogrammazione – per quelle relative a temi specifici così come, presumibilmente, per la programmazione di zona – nell’ambito di un sistema di relazioni tra enti pubblici e Terzo settore, coerente con l’art. 55 della riforma del Terzo settore, più solido rispetto alla 328/2000. Anzi, vi è anche chi (Bongini, Di Rago, Semeraro, Zandrini 2021: non a caso un gruppo di autori in cui collaborano persone provenienti dalla pubblica amministrazione e dal Terzo settore) prova a spingersi un passo più avanti, ponendo la questione della relazione tra enti pubblici e Terzo settore in sede di redazione dei documenti fondamentali di programmazione (ad iniziare, per gli enti locali, dal DUP), laddove essi riguardino i settori di interesse generale.
Insomma, tutto ciò porta a ritenere che il 2022 veda una diffusione di esperienze di coprogrammazione; come ogni evoluzione, questo scenario posta con sé alcuni nodi che, senza pretesa di completezza, si è provato ad accennare, dalla cui positiva soluzione dipende l’effettivo successo di tali processi.
Foto di Luisella Planeta Leoni da Pixabay