L’applicazione di uno schema di organizzazione e di gestione per contenere il rischio di commissione di reati può rappresentare un’opportunità alla luce anche delle indicazioni della riforma del Terzo settore
Per lungo tempo ignorati dal legislatore, gli enti del Terzo Settore (Ets) hanno subito una costante crescita numerica ed economica tanto da richiedere un intervento organico di riordino del settore, realizzatosi solo con il decreto legislativo n. 117/2017 (codice del Terzo Settore). La rilevanza del fenomeno degli enti non profit ha condotto, diversi anni dopo l’introduzione del decreto legislativo 231/2001 in materia di responsabilità amministrativa degli enti, ad interrogarsi circa l’applicabilità della “Disciplina 231” alle organizzazioni prive di finalità di lucro ed in particolare agli enti del Terzo settore.
Il decreto legislativo 231/2001, superando l’oramai anacronistico brocardo latino “societas delinquere non potest”, ha introdotto nel nostro ordinamento la “responsabilità amministrativa delle società e degli enti”.
L’art. 1 indica con sufficiente precisione i destinatari della disciplina del decreto. Recita infatti il comma 2 dell’articolo citato che le disposizioni in esame “si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”.
Da ciò si evince che il criterio adottato dal legislatore non si fonda sul classico paradigma di esistenza o meno di una formale autonomia patrimoniale dell’ente: in tal caso, infatti, le società e associazioni prive di personalità giuridica non sarebbero dovute rientrare nell’ambito applicativo del decreto. La caratteristica fondamentale sembra essere l’esistenza di un’organizzazione, cioè di un soggetto di diritto caratterizzato da un certo grado di complessità organizzativa che, in quanto tale, si distingue dai singoli soggetti che lo compongono.
Il comma 3 aggiunge poi che sono esclusi dall’ambito applicativo della disciplina “lo stato, enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo”. L’esclusione, con riferimento a enti di tale sorta, si spiega soltanto in considerazione del fatto che, per la loro natura pubblicistica, l’estensione della responsabilità avrebbe comportato “un costo probabilmente non compensato da adeguati benefici”. In altri termini, l’eventuale applicazione a tali soggetti delle sanzioni, interdittive e pecuniarie, previste dal decreto avrebbe corso il rischio di provocare un pregiudizio per la collettività.
Tutti gli enti destinatari del decreto 231, al fine di contenere il rischio di commissione di reati, sono tenuti, seppur non coattivamente, ad adottare un “modello di organizzazione e gestione” (Mog). Quest’ultimo può assolvere sia ad una funzione preventiva ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera a) del decreto, che non a caso parla di “idoneità a prevenire reati”; oppure rispondere a una logica special-preventiva, ossia dimostrare attraverso l’adozione di un modello idoneo il “ravvedimento” dell’ente. Si delineano così due tipologie diverse di modello, uno adottato ex ante, prima della commissione del reato presupposto, e uno ex post, dopo la realizzazione del fatto illecito, nell’ottica di prevenire in futuro reati della stessa specie di quello verificatosi.
Ampia attenzione è stata dedicata al tema dell’assoggettabilità della disciplina in esame agli enti del Terzo settore.
Gli enti non profit di carattere privato (comitati, fondazioni, associazioni o altre organizzazioni collettive che perseguono fini ideali e/o solidaristici) non rientrano certamente nella categoria pubblicistica degli enti espressamente esclusi, ma non rientrerebbero comunque nella sfera applicativa del decreto legislativo n. 231/2001 in quanto carenti del necessario “carattere imprenditoriale” dell’attività svolta, requisito attorno al quale appare essere costruito il complessivo sistema punitivo del decreto legislativo.
Tutti i dubbi interpretativi sono stati unanimemente fugati prendendo in analisi sia il dato testuale della normativa, sia l’attività svolta in concreto dall’ente. In primo luogo, il legislatore non ha esplicitamente escluso l’applicabilità della disciplina agli Ets né è possibile giungere a tale conclusione in via interpretativa, posto che all’interno dell’elenco dei reati presupposto rientrano anche fattispecie che non postulano l’esercizio di attività di impresa. In secondo luogo, il movente economico-finanziario alla base della commissione di molti degli illeciti rientranti nel campo di applicazione del decreto 231 appare perfettamente compatibile anche con enti di scopo non lucrativo, che comunque concorrono a creare utilità a soggetti che operano nell’ambito delle loro organizzazioni.
La situazione di incertezza applicativa è poi definitivamente mutata a seguito dell’introduzione del codice del Terzo settore, il quale ha previsto espressamente che l’organo di controllo dell’Ets è tenuto, laddove istituito, a vigilare sull’osservanza delle disposizioni contenute nel decreto 231, qualora applicabili, e sull’adeguatezza e corretto funzionamento dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell’ente stesso. Pertanto, da una lettura unitaria e sistematica delle norme appena citate emerge chiaramente una possibile applicazione della “disciplina 231” nell’ambito della riforma del Terzo settore.
A ben vedere, nonostante la costruzione del modello si basi sostanzialmente su una prospettiva di tipo aziendalistico, anche le organizzazioni non profit, e quindi gli enti del Terzo settore, possono a dotarsi di un Mog attraverso l’identificazione delle attività e dei processi aziendali a rischio, la mappatura delle aree a rischio reato e dei processi “sensibili”, la valutazione del risk assessment e, infine, la definizione di principi generali e protocolli specifici di controllo.
© Foto in copertina di Antonio Presta, progetto FIAF-CSVnet "Tanti per tutti. Viaggio nel volontariato italiano"