La legge 328/2000, i piani di zona, le istruttorie di co-progettazione, i patti di sussidiarietà in Liguria
L’idea che enti pubblici e Terzo settore possano collaborare, essere alleati, uniti dal perseguimento di una medesima finalità di interesse generale, è affermata con forza dall’art. 55 del Codice del Terzo settore; ma già in anni precedenti troviamo alcune formulazioni, seppure non così chiare e compiute, di ciò che oggi identifichiamo come “amministrazione condivisa”.
È utile a questo fine concentrarsi non tanto sui molti casi in cui l’ente pubblico, praticando una sussidiarietà orizzontale anche prima dell’approvazione nel 2001 dell’art. 118 della Costituzione, ha riconosciuto l’operato del Terzo settore come di interesse generale (sono molti casi di contributi al volontariato o le convenzioni con cooperative sociali di inserimento lavorativo), ma sulle relazioni, ben più impegnative, in cui l’ente pubblico non si è limitato a prendere atto della positività di talune azioni del Terzo settore, ma ha deciso di condividere con esso una parte della programmazione e della progettazione degli interventi. Ci interessa quindi verificare i casi in cui la relazione non si è esaurita nel sostegno al terzo settore, ma ha previsto, in modo non occasionale – quindi non nell’ambito di una riunione o di un accordo specifico, ma in virtù di un procedimento definito a ciò finalizzato -, la scelta di co-decidere cosa fare e come farlo.
L’esempio più noto sono i Piani di zona – di fatto una forma di co-programmazione – istituiti dalla legge 328/2000, che aveva altresì previsto, nell’ambito di un successivo decreto attuativo, la possibilità di indire “istruttorie di co-progettazione” tra enti pubblici e Terzo settore relativamente a interventi “sperimentali e innovativi”.
La 328/2000 è, a seconda del lato da cui la si guardi, una legge visionaria e al tempo stesso una norma appesantita da concezioni a ben vedere già arretrate nel momento in cui la legge veniva pubblicata (vedi anche questo articolo per approfondire).
Il principale elemento innovativo della 328/2000 relativamente ai temi qui trattati è la scelta di non essere una legge che disciplina i “servizi sociali”, ma il “sistema integrato di interventi e servizi sociali”, definizione che rimanda ad una concezione dell’intervento sociale che è costitutivamente frutto del concorso e della sinergia di una molteplicità di soggetti; questa è, a ben vedere, l’eredità fondamentale della 328/2000, che ha reso – anche al di là delle previsioni della norma stessa – soprattutto i piani di zona un momento inedito di partecipazione e co-costruzione tra enti pubblici e Terzo settore.
D’altra parte, la 328/2000 è al tempo stesso una norma debole in termini di concezione del Terzo settore; più debole del dovuto, se si pensa che già nove anni prima, con le leggi 266/1991 e 381/1991, l’idea di soggetti privati che perseguono l’interesse generale era già ben presente nel nostro ordinamento; e se si pensa che il testo della riforma costituzionale che avrebbe introdotto il principio di sussidiarietà all’art. 118 della Costituzione (Legge costituzionale 3/2001) era già stato approvato in prima lettura. La 328/2000, figlia di un periodo segnato dall’assolutismo della competizione di mercato, che si andava affermando culturalmente come via unica per garantire l’interesse generale, esprime una concezione “pragmatica” del Terzo settore: da una parte rinuncia a sviluppare le naturali conseguenze delle leggi del 1991, dall’altra prende atto del fatto che il Terzo settore può contribuire in modo importante e originale alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi. L’equilibrio che emerge da queste spinte contrastanti è quello che si ritrova nella legge: un’enfasi sulla valorizzazione delle capacità progettuali del Terzo settore e sulla necessità che esso sia sostenuto, ma un’impostazione delle relazioni basata essenzialmente su affidamenti tramite appalti che resterà prevalente e quasi esclusiva nei due decenni successivi; un’ammissione del Terzo settore agli istituti che oggi definiamo di “amministrazione condivisa”, ma in condizioni specifiche (e formalmente piuttosto restrittive): la co-programmazione (i piani di zona) accessibile agli enti di Terzo settore che contribuiscono “con risorse proprie” e la co-progettazione destinata ai casi di “interventi innovativi e sperimentali”. Insomma, l’amministrazione condivisa non come opzione “naturale” e di pari dignità rispetto ad altre, ma introdotta in talune specifiche circostanze. Poi vi è da dire che – anche per l’oggettiva forza evocativa del concetto di “sistema integrato di interventi e servizi” – di fatto, soprattutto per quanto riguarda i piani di zona, vi sono state fasi di entusiasmo in cui tali pratiche sono state aperte senza particolari limitazioni al Terzo settore, mentre le istruttorie di co-progettazione – che a differenza dei piani di zona implicano la definizione di aspetti operativi e dei conseguenti rapporti economici – sono rimaste confinate ad un numero limitato di esempi. Gli stessi piani di zona, dopo un iniziale entusiasmo, in molti contesti territoriali, si sono diradati o si sono limitati ad esprimere orientamenti generali, perdendo la valenza di atti di effettiva programmazione dei servizi e degli interventi sociali.
Infine, va tenuto conto che queste esperienze di amministrazione condivisa si sviluppano in un ambito settoriale ben preciso e connesso alla norma che le ha istituite e quindi nel welfare; nella pratica va comunque tenuto conto che sul territorio nazionale anche di questo termine sono state date definizioni più o meno restrittive, in alcuni casi coinvolgendo comunque anche soggetti di Terzo settore operanti in ambiti limitrofi.
I patti di sussidiarietà istituiti dalla legge 42/2012 della Regione Liguria meritano una specifica menzione tra le diverse normative regionali perché rappresentano quanto di più simile all’art. 55 del Codice del Terzo settore sia stato realizzato (ben) prima dell’art. 55 stesso; tale norma ha dato vita – e questa è una specificità ligure rispetto a norme di altre regioni, rimaste di fatto inattuate – a numerose esperienze concrete e tutt’ora esistenti di patti, spesso ampi e articolati, tra amministrazioni pubbliche e una pluralità di enti del Terzo settore. I patti di sussidiarietà prevedono infatti la possibilità di promuovere – anche da parte del Terzo settore, altra specificità ligure che anticipa l’art. 55 – co-progettazioni a sostegno dell’autonoma capacità del Terzo settore di rispondere ad un bisogno della comunità; elemento qualificante risulta quindi l’effettiva consistenza – già attuale o da svilupparsi tramite il patto – dell’azione autonoma del Terzo settore, sostenuta in via sussidiaria dalla pubblica amministrazione dopo avere comunemente lavorato per trasformare un primo progetto di massima in un progetto esecutivo definitivo.
Prima dell’art. 55 ci sono state in Italia alcune importanti esperienze che oggi definiremmo “di amministrazione condivisa”, che hanno avuto un ruolo importante nel mostrare nei fatti la possibilità e i vantaggi della collaborazione. In assenza di una solida concezione del Terzo settore come soggetto di interesse generale e di una esplicita assunzione di una prospettiva di sussidiarietà, oltre che a causa della accettazione acritica dell’ideologia della competizione e del mercato, sono comunque rimaste abbastanza marginali con l’eccezione di taluni contesti geografici o temporali ben definiti. L’art. 55 del Codice del Terzo settore, soprattutto dopo la sentenza 131 della Corte costituzionale, sta invece aprendo nei fatti l’opportunità di far diventare le esperienze di amministrazione condivisa una via “ordinaria” per “elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale.