LE CONVENZIONI CON LE COOPERATIVE SOCIALI

Previste dalla legge n. 381 del 1991 costituiscono delle forme specifiche di affidamento di servizi attraverso modalità che non coincidono con quelle del Codice dei contratti pubblici

L’art. 5 della legge n. 381 del 1991 contiene la disciplina del rapporto fra pubblica amministrazione e cooperative sociale che il legislatore ha chiamato “convenzione”, ma che non è da confondere con la fattispecie sopra descritta. Le convenzioni della legge n. 381 del 1991, infatti, possono essere stipulate fra le cooperative sociali di tipo B e la pubblica amministrazione e costituiscono delle forme specifiche di affidamento di servizi attraverso modalità che non coincidono con quelle del Codice dei contratti pubblici.

La ratio della previsione è da rintracciare nello scopo di “creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate” (art. 5), attraverso lo strumento della convenzione. Quest’ultimo elemento finalistico, pertanto, orienta tutta l’interpretazione e l’applicazione della disposizione e rappresenta la giustificazione della sottrazione di questo tipo di rapporti alle norme del Codice dei contratti pubblici: l’obiettivo ispirato dal principio di solidarietà sociale consente una deroga, seppur delimitata e di stretta interpretazione, alle norme generali in tema di rapporti fra pubblica amministrazione e soggetti privati nel campo dell’acquisto di beni o servizi.

IL PROFILO SOGGETTIVO

Le convenzioni qui trattate possono essere concluse fra tutte le pubbliche amministrazioni e le sole cooperative sociali cosiddette di tipo B, oppure i consorzi costituiti come società cooperative aventi base sociale formata in misura non inferiore al settanta per cento da cooperative sociali (come previsto dall’art. 8 della legge n. 381 del 1991).

Sono chiamate cooperative sociali “di tipo B”, le cooperative sociali nelle quali almeno il trenta per cento dei lavoratori (soci o non soci) sia costituito da persone svantaggiate, così come definite ai sensi dell’art. 4 della stessa legge n. 381. Sono considerate “persone svantaggiate” gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, le persone detenute o internate negli istituti penitenziari, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all'esterno ai sensi dell'articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni. L’elenco può essere integrato dai soggetti indicati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il Ministro della Sanità, con il Ministro dell'Interno e con il Ministro per gli Affari sociali, sentita la commissione centrale per le cooperative istituita dall'articolo 18 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni.

È utile notare, a questo proposito, che l’elencazione dei soggetti svantaggiati contenuta nella legge n. 381 del 1991 non coincide con quella, più ampia, del dlgs n. 112 del 2017 (art. 2, c.4), in tema di impresa sociale. Una differenza che risulta davvero poco comprensibile.

Costituisce un requisito necessario per la stipula della convenzione l’iscrizione della cooperativa all’albo regionale (art. 9 della legge n. 381 del 1991). L’iscrizione in una Regione ha valore sull’intero territorio nazionale. La legge precisa altresì (art. 5, c. 2) che analoghi organismi aventi sede in altri Stati membri della Comunità europea debbono essere in possesso di requisiti equivalenti a quelli richiesti per l'iscrizione a tale albo o dare dimostrazione, con idonea documentazione, del possesso dei requisiti stessi.

Le linee guida dell’Anac n. 32 del 2016 sottolineano che la percentuale di lavoratori svantaggiati deve essere riferita sia al numero complessivo dei lavoratori della cooperativa sia a quello che esegue le singole prestazioni dedotte in convenzione. Le stesse linee guida ricordano che nel caso in cui la stazione appaltante accerti che non siano rispettati gli obblighi relativi alla realizzazione dell’inserimento lavorativo previsti nella convenzione, viene meno la causa dell’affidamento in deroga e, quindi, si impone la cessazione del rapporto.

IL PROFILO OGGETTIVO

Per questa particolare tipologia di convenzioni, sono da considerare una serie di requisiti stringenti sul piano oggettivo. In particolare, può essere conclusa una convenzione fra le cooperative sociali di tipo B e la pubblica amministrazione a condizione che:

  1. abbiano ad oggetto la sola fornitura di beni e servizi strumentali resi a favore della pubblica amministrazione e riferibili ad esigenze strumentali della stessa e non riguardino la fornitura di beni e servizi di tipo socio-sanitario ed educativo. Trattandosi di una norma derogatoria, l’ambito di applicazione non può essere esteso in via interpretativa (Consiglio di Stato, sez V., 27 marzo 2015, n. 1620).
  2. la finalità perseguita deve essere non solo quella di fornire un determinato bene o servizio alla pubblica amministrazione, bensì pure la creazione di occasioni di lavoro per i soggetti svantaggiati; in tal senso, come ricordano le linee guida Anac n. 32 del 2016, “la scelta di avvalersi del modulo convenzionale costituisce frutto di una valutazione discrezionale, che, come tale, deve essere adeguatamente motivata in relazione alle ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano. In particolare il criterio dell’adeguatezza (…) richiede che vengano esplicitate le finalità di ordine sociale che si intende raggiungere ed impone che, in fase di esecuzione della convenzione, siano previsti appositi controlli onde verificare il raggiungimento degli obiettivi prefissati”;
  3. il valore della convenzione, al netto dell’Iva, sia inferiore alla soglia prevista attualmente dall’art. 35 del Codice dei contratti pubblici (dlgs n. 50 del 2016), variabile a seconda dell’attività da svolgere; il valore si determina nel rispetto di quanto previsto nella medesima disposizione. Al di sopra di tale soglia la pubblica amministrazione è tenuta ad applicare quanto previsto dal Codice dei contratti pubblici o – si ritiene - dal Codice del Terzo settore (art. 55).

Al di sopra della soglia prevista dalla legge, l’art. 5, c. 4 della legge n. 381 del 1991 prevede che “gli enti pubblici compresi quelli economici, nonché le società di capitali a partecipazione pubblica, nei bandi di gara di appalto e nei capitolati d'onere possono inserire, fra le condizioni di esecuzione, l'obbligo di eseguire il contratto con l'impiego delle persone svantaggiate di cui all'articolo 4, comma 1 [ossia, le categorie già viste sopra, al par. 4.1], e con l'adozione di specifici programmi di recupero e inserimento lavorativo”.

Lo strumento giuridico che, di norma, è a disposizione per il conseguimento del medesimo obiettivo “sopra soglia” è rappresentato dall’art. 112 del Codice dei contratti pubblici, che consente di riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto e a quelle di concessione o di riservare l’esecuzione degli stessi ad “operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate” o, infine, “riservare l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando almeno il 30 per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati”.

IL PROCEDIMENTO DI SELEZIONE

La legge n. 381 del 1991 (art. 5 c.1) prevede che le convenzioni “sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza”. Tale previsione è stata inserita dalla legge n. 190 del 2014 (art. 1, c. 610), sulla scorta di orientamenti interpretativi e giurisprudenziali volti a censurare la possibilità per la pubblica amministrazione di effettuare semplici affidamenti diretti a favore delle cooperative sociali. Si è ritenuto, infatti, che la deroga all’applicazione delle norme ordinarie in tema di contratti pubblici non possa spingersi sino al punto di eliminare qualsiasi previsione di trasparenza e parità di trattamento.

L’attuale formulazione comporta che la selezione della cooperativa sociale o delle cooperative sociali con le quali stipulare la convenzione debba avvenire all’interno di un procedimento che consenta di comparare le diverse offerte delle cooperative sociali partecipanti, le quali debbono essere poste in condizione di essere informate della selezione e di poter partecipare in condizioni di parità. Spetta, quindi, a ciascuna amministrazione definire le modalità attuative della prescrizione dell’art. 5, c.1 in termini procedurali, nel rispetto dei principi desumibili dal diritto europeo. A giudizio delle linee guida Anac n. 32 del 2016, “in assenza di previsioni alternative circa la procedura di affidamento da utilizzare, si ritiene che la materia debba essere disciplinata secondo i canoni previsti dal Codice dei Contratti, avendo a riferimento la natura degli affidamenti”.

Le stesse linee guida affermano altresì che il criterio da applicare nella valutazione delle offerte delle cooperative sociali è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in quanto la stazione appaltante deve poter valutare l’effettivo perseguimento dell’obiettivo del reinserimento dei lavoratori, giustificandosi per tale fine la compressione della concorrenza.

Secondo gli orientamenti giurisprudenziali maturati sul punto, alle convenzioni previste dalla legge n. 381 del 1991 si applica il principio di rotazione, il quale costituisce una specifica applicazione del principio di non discriminazione (Consiglio di Stato, sez. V, 17 gennaio 2009, n. 435). Si tratta di una interpretazione che, data la finalità perseguita dalle convenzioni, presenta non pochi profili problematici e rivela uno scenario di possibile tensione fra finalità solidaristica dello strumento e tutela della concorrenza.

ALCUNE CONSIDERAZIONI DI SINTESI

Le “convenzioni” si collocano, come si è visto, nel punto più delicato dell’intersezione fra la disciplina promozionale del Terzo settore (o, meglio, di una parte di esso: Odv, Aps e cooperative sociali) e la disciplina dei contratti pubblici. Le convenzioni, infatti, rappresentano degli “spazi giuridici” – per così dire – nei quali le norme sulla contrattualistica pubblica dovrebbero trovare applicazione ma in cui il legislatore, per finalità solidaristiche e di valorizzazione dell’autonoma iniziativa dei cittadini associati (valorizzazione della sussidiarietà, si potrebbe dire), ha stabilito che esse non trovino applicazione. Al contrario, ad essere applicate sono disposizioni che, tramite la conclusione di una convenzione, intendono realizzare obiettivi ulteriori rispetto alla semplice realizzazione di un servizio, quali l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, l’allestimento di un servizio di emergenza-urgenza in grado di assicurare una universale protezione del diritto alla salute, la valorizzazione dell’attività di volontariato, ecc. (già si è detto, in apertura, della differenza fra le convenzioni e la co-progettazione).

Proprio perché si tratta di ambiti sottratti all’applicazione delle norme sui contratti pubblici, il legislatore ha inserito una serie di limitazioni con la finalità di disciplinarne il ricorso, in un’ottica di bilanciamento fra finalità solidaristica e tutela della concorrenza. Si spiegano così le limitazioni di ambito materiale, le limitazioni dal punto di vista delle qualifiche del Terzo settore, le limitazioni legate al mero rimborso delle spese, e i requisiti di contenuto delle convenzioni, ecc.

Non stupisce, allora, che le convenzioni – e, in particolare, quelle legate al delicatissimo servizio di emergenza-urgenza – siano oggetto di un contenzioso complesso davanti alla giurisdizione amministrativa e alla giurisdizione della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Tali pronunce, insieme alle linee guida dell’Anac n. 32 del 2016 (attualmente in fase di revisione a seguito di una consultazione pubblica) ed alle fondamentali linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore (dm n. 72 del 2021), integrano il dettato normativo statale e regionale, cercano di delimitare i rispettivi confini, sebbene qualche tensione rimanga aperta.

Nel complesso, gli artt. 56 e 57 del Codice del Terzo settore e l’art. 5 della legge n. 381 del 1991 rivelano un altro volto – ma non meno importante – dell’amministrazione condivisa. Anche queste disposizioni concorrono al superamento dell’idea “per cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale e si è riconosciuto che tali attività ben possono, invece, essere perseguite anche da una ‘autonoma iniziativa dei cittadini’ che, in linea di continuità con quelle espressioni della società solidale, risulta ancora oggi fortemente radicata nel tessuto comunitario del nostro Paese”. Ciò avviene senza ricorrere al mercato, ma valorizzando l’ambito delle cosiddette “‘libertà sociali’ (sentenze n. 185 del 2018 e n. 300 del 2003) non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle ‘forme di solidarietà’ che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese ‘tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente’” (sentenza n. 309 del 2013).

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