Come evitare eventuali corto circuiti dovuti a una scorretta applicazione del modello
Con il moltiplicarsi delle esperienze di amministrazione condivisa diventa normale conoscere, accanto alle molte esperienze pienamente positive narrate in modo entusiastico dai protagonisti, anche casi in cui i protagonisti esprimono criticità più o meno rilevanti. Si tratta di una dinamica normale quando dalle teorizzazioni si passa all’applicazione pratica, tanto più laddove essa richiede un profondo cambiamento culturale che difficilmente può essere immediato.
E qui si verificano una prima serie di rischi, di cui si trova traccia anche nei capitoli “Le sfide per il Terzo settore” e “Le sfide per la pubblica amministrazione”, in cui si richiamavano i cambiamenti a cui entrambi i soggetti coinvolti sono chiamati per dare vita a esperienze autentiche di amministrazione condivisa. Questi rischi sono riconducibili ad una transizione imperfetta al nuovo modello per cui si tende a comportarsi “come in un appalto”: la pubblica amministrazione promuove co-progettazioni dove le risposte ai bisogni sono già indicate da principio deprimendo il lavoro dei tavoli, o che utilizza la collaborazione come pretesto per diminuire le risorse; il Terzo settore che adotta un atteggiamento poco propositivo, non collaborativo e che non porta un valore aggiunto significativo in termini di competenza.
È però forse più interessante esaminare i problemi che si verificano anche in situazioni non patologiche, in cui quindi, si presentano delle criticità pur in processi collaborativi per altri versi ben funzionanti.
Collaborare stanca? Un aspetto, riferito da più parti, è che la collaborazione può essere faticosa: l’ascolto dei diversi punti di vista, la ricerca di sintesi che siano al tempo stesso inclusive delle diverse sensibilità ed efficaci, rischia di rappresentare un aggravio significativo per gli enti del Terzo settore le cui strutture sono già ai minimi termini. Proprio nei territori dove l’amministrazione condivisa ha successo, si rischia che le stesse organizzazioni siano impegnate in più tavoli di lavoro, ciascuno dei quali richiede approfondimento, studio, tempo per riunioni, ecc. In parte la questione è affrontabile con un’adeguata gestione dei tavoli, ma in generale va diffusa, tra i finanziatori del Terzo settore pubblici e di filantropia istituzionale e nel Terzo settore stesso, la consapevolezza che destinare risorse adeguate a funzioni di secondo livello – ricerca, formazione, qualità, supervisione, raccolta di dati, ecc. – non è uno spreco, non è una distrazione di fondi rispetto a finalità più nobili, ma è un requisito essenziale per avere organizzazioni di qualità (per approfondire vedi questo articolo).
Collaborare costa? Il tema economico rappresenta un altro punto assai delicato nel momento in cui l’amministrazione condivisa viene associata a politiche di riduzione della spesa pubblica, nell’irrealistica ipotesi che sia il Terzo settore – non è chiaro con quali fonti – a finanziare interventi di interesse generale. La retorica sul co-finanziamento genera pressioni e aspettative improprie: da una parte dà voce a coloro che diffidano dell’amministrazione condivisa considerandola (a torto) un espediente per erodere i diritti, dall’altra la fa percepire al Terzo settore come l’ennesimo tentativo di imporre, da parte dell’ente pubblico, condizioni insostenibili. Va chiarito che, se è vero che le migliori esperienze di amministrazione condivisa portano ad una moltiplicazione delle risorse inizialmente messe a disposizione, ciò avviene perché le risorse si cercano insieme (attraverso la progettazione comunitaria e presso fondazioni, la raccolta fondi nella comunità, la ricerca di volontari, l’attivazione della cittadinanza, le attività di impresa) e non perché vengono estratte a forza dal Terzo settore (vedi questo articolo per approfondire).