Era il 2014 quando furono pubblicate le linee guida per una riforma che avrebbe trasformato profondamente il mondo non profit in Italia. Ecco un primo bilancio a cura del costituzionalista Luca Gori, con uno sguardo al prossimo decennio
I dibattiti che animano l’attualità del Terzo settore italiano (e le sue proiezioni europee) non possono far dimenticare una ricorrenza importante: la riforma del Terzo settore ha compiuto, nel 2024, un decennio. Prendendo come punto di riferimento la pubblicazione delle Linee guida per una riforma del Terzo settore da parte del Governo Renzi nel 2014, sono passati più di dieci anni. Da quelle linee guida ha preso avvio il percorso della legge delega (n. 106 del 2016) e successivamente l’adozione dei decreti legislativi nel 2017 (fra gli altri, i più importanti, il n. 112 e il n. 117 del 2017). In verità, si deve ricordare che diversi tentativi di riforma, in gran parte falliti, erano stati tentati anche precedentemente al 2014, animando un dibattito assai interessante di cui si trovano molte tracce nella letteratura specialistica.
Non è facile dirsi se dieci anni siano pochi o tanti. Sono pochi se si pensa che una riforma debba oltrepassare le generazioni e individuare un chiaro vettore di sviluppo ordinato della società; sono molti, se si pensa alla sempre crescente instabilità normativa che caratterizza i nostri tempi. Sicuramente, dieci anni – nel mezzo dei quali si è vissuta l’esperienza pandemica – sono un periodo di tempo significativo per una riforma che ha inteso stabilire un quadro normativo promozionale per le variegate manifestazioni del pluralismo sociale italiano. I modi in cui le persone decidono di stare insieme per rispondere a bisogni o soddisfare interessi in attuazione del principio di solidarietà mutano con grande velocità, come indicano le acquisizioni più interessanti della sociologia. Dieci anni, in questa prospettiva, costituiscono allora un periodo di tempo significativo per poter provare a esprimere alcune valutazioni sul percorso già intrapreso e comprendere cosa si muoverà nel prossimo futuro.
In dieci anni, si sono alternati, a livello nazionale, molti governi, sostenuti da formule politiche (quasi sempre) differenti. Non è un elemento trascurabile per esprimere un giudizio. C’è un elemento che forse si può dire acquisito: l’importanza, per ogni agenda politica, del ruolo del Terzo settore, al punto da divenire quasi un tema su cui si registra un consenso trasversale. In questo senso, la riforma – consentendo di chiamare per nome il «Terzo settore» anche dal punto di vista normativo – ha giocato un ruolo importante. La sentenza n. 131 del 2020 ha stabilizzato, dal punto di vista costituzionale, questo dato.
Rimane, invece, una difficoltà nel declinare operativamente quel ruolo “politicamente” riconosciuto, all’interno delle diverse policies: in altri termini, si potrebbe dire che si fatica a comprendere che il Terzo settore non è semplicemente un capitolo delle politiche sociali o un punto di una riforma fiscale, ma è, complessivamente, un metodo di costruzione di politiche pubbliche innovative che si fonda sull’attivazione collettiva e libera delle persone in forme che l’ordinamento ritiene meritevoli. Così, vi è una prospettiva del Terzo settore sulla giustizia (carcere, giustizia minorile, ecc.), sulla politica estera (cooperazione internazionale, migrazioni, ecc.), sull’ordinamento degli enti locali, sulla devoluzione dei poteri alle Regioni, sull’istruzione, sulla salute, ecc. La varietà delle attività di interesse generale elencate nel codice del Terzo settore (art. 5 Cts) testimonia bene questa ampiezza di “visioni”. E, quindi, se non si incorpora dentro il metodo di governo (anche) il metodo del Terzo settore, pur a fronte di riforme del Terzo settore di ampio respiro e innovative, quest’ultime sono destinate a non essere incisive. Pertanto, se può dirsi positivo il bilancio sulla visibilità istituzionale del Terzo settore e sul consolidamento di un vero e proprio diritto del Terzo settore (innegabile merito della riforma, rispetto al patchwork precedente), più chiaroscurale è, invece, il giudizio sul modo in cui il metodo di governare ha preso in considerazione il metodo del Terzo settore.
Un secondo punto di vista che si propone: la riforma del Terzo settore è una riforma difficile, che tocca alcuni nodi costituzionali delicatissimi (come ha ricordato la Corte costituzionale): libertà di associazione, libertà di impresa, diritti inviolabili della persona, buon andamento della P.A., obbligo tributario. Tocca, inoltre, trasversalmente moltissime amministrazioni centrali e periferiche e coinvolge moltissimi settori. Riguarda da vicino la “storia” del nostro Paese.
Di grandissimo impatto – ancora oggi sottovalutato, a mio giudizio – è l’aver dettato una definizione di ente del Terzo settore in grado di comprendere, con una vocazione unitaria, un fenomeno intrinsecamente plurale e connotato da una pluralità di forme giuridiche, modelli organizzativi, ambiti di attività e modalità operative (art. 4 Cts, vera e propria norma di sistema). La finalità principale di quella definizione è offrire agli enti del Terzo settore una serie di misure di supporto e promozione (perché lo richiede la Costituzione), che si devono bilanciare con l’autonomia degli enti e con l’esigenza di assicurare un controllo. È un’operazione da equilibristi: ogni modifica sposta il baricentro, determina effetti di rigetto, sollecita cambiamenti.
Così si spiegano, a mio giudizio, le frequenti modifiche dei testi normativi (le ultime nel 2024), le numerose note ministeriali di interpretazione, gli interventi dei giudici (soprattutto amministrativi). Si sarebbero potute prevedere attraverso una più puntuale analisi di impatto della regolamentazione ex ante? Forse sì. Ma è vero che molti nodi si sono posti, in realtà, nel diritto vivente, nel “farsi” quotidiano. Il passaggio più rilevante del decennio è, indubbiamente, costituito dall’istituzione del registro unico nazionale del Terzo settore (istituito col dm 106 del 2020, sulla base delle previsioni del Cts). Al di là delle inevitabili difficoltà di costruzione e iscrizioni e delle criticità tecniche, oggi si può dire che la presenza di una forma di registrazione unica, di respiro nazionale, che non solo consente l’accesso al regime promozionale del Terzo settore ma che soddisfa anche l’esigenza di trasparenza e conoscenza da parte di tutti i soggetti portatori di interesse, rappresenta un risultato che, all’inizio del decennio, appariva una chimera.
In questo bilancio decennale, un terzo elemento da considerare sono le misure promozionali per il Terzo settore: quali sono? Come sono state costruite? Come funzionano? Il decennio ci consegna un quadro complesso. Di grande positività è che la riforma abbia costruito una serie di misure promozionali a carattere nazionale e stabile: si tratta, cioè, di un insieme di strumenti che si proiettano nel tempo e che riguardano qualsiasi Ets, ovunque esso si trovi. Sono misure che aspirano a essere di lungo periodo. Più tortuosa – come sempre – è stata la strada della loro attuazione: se si pensa alla vicenda dell’amministrazione condivisa (art. 55 Cts), si ha una sorta di caso-studio, quasi da manuale: dalla novità di un nuovo paradigma di amministrazione condivisa, al rigetto per via amministrativo-giudiziaria, l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 131/2020, la modifica del paradigma normativo del Codice dei contratti pubblici, l’attuazione tramite atti di soft-law (dm 72 del 2021), l’attivazione di molte iniziative a livello locale. Ciò ha richiesto, però, quasi un decennio di incessante lavoro interpretativo, se si considera che l’avvio del dibattito si può far risalire alle famose Linee guida Anac del 2014 (ancora prima dell’avvio dell’iter della riforma!). Altre misure, più consuete, non hanno richiesto adattamenti specifici; altre più innovative (come, ad es., il social bonus) hanno richiesto qualche tempo per essere elaborate, in ragione della loro novità.
Interessante è stato il contributo offerto dalle Regioni. Le leggi regionali approvate (Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte, Umbria, Molise) hanno introdotto alcuni elementi di interesse, provando a “calibrare” il quadro normativo nazionale sulla realtà regionale. È ragionevole pensare che, nel corso del prossimo decennio, tutte le Regioni italiane avranno messo mano a una legislazione sul Terzo settore. L’iniziativa recente della Regione Trentino-Alto Adige e delle due Province autonome, invece, ha posto la questione (problematica) del rapporto fra specialità regionale e quadro nazionale del Terzo settore.
Il vero punto aperto, però, rimane la disciplina fiscale. Da un lato, bisogna non sovraccaricarla di significati. La disciplina fiscale è un aspetto – importante, ma non l’unico – della disciplina promozionale del Terzo settore: è più importante avere oggi una definizione di ente del Terzo settore, di cui la disciplina fiscale costituisce un corollario (si promuove fiscalmente ciò che si è ritenuto, sul piano sostanziale, meritevole), che non una disciplina fiscale scollegata da una definizione di sistema (il sistema Onlus fu, all’epoca, una grande novità da questo punto di vista). Dall’altro, però, il vero tratto che preoccupa è la difficoltà di tradurre quel riconoscimento sostanziale (l’ente del Terzo settore) in coerenti misure fiscali che siano in grado non solo di superare il vaglio europeo (secondo le previsioni dei Trattati), bensì pure di valorizzare il principio di sussidiarietà. Da questo punto di vista, l’esigenza di costruire un diritto tributario del Terzo settore, che sia il riflesso tributario del riconoscimento costituzionale del Terzo settore, è la vera sfida: un diritto tributario che riconosca il contributo al finanziamento della spesa pubblica che proviene dal Terzo settore, nelle sue plurime qualifiche. Concentrarsi solo sul tema europeo – come si è fatto in questo decennio – rischia di essere fuorviante: occorre prima avere ben chiaro quale sia il posto del diritto tributario del Terzo settore nello scenario di una riforma e quale sia, in definitiva, il “modo” in cui il potere pubblico guarda al Terzo settore dal punto di vista fiscale. Perché avere una disciplina compatibile con il diritto Ue, ma non coerente con il principio di sussidiarietà, così come riconosciuto dalla nostra Carta costituzionale, è un rischio. Questo è un tema che, probabilmente, sarà consegnato al prossimo decennio della riforma del Terzo settore: è ancora necessario attendere l’autorizzazione europea di alcune misure (secondo quanto previsto dal Cts, art. 101, c.10); verificarne l’attuazione e gli impatti per Ets e, in particolare, per le imprese sociali (specialmente a seguito del venire meno del regime Onlus); valutare gli adattamenti alla luce dell’esperienza in concreto (ad oggi, le modifiche sono avvenute sulla base di ipotesi e non di prassi).
Così, al prossimo decennio sarà consegnata la riflessione sulla proiezione europea del Terzo settore, nel contesto dell’attuazione del Piano europeo di azione sull’economia sociale (quarto spunto di riflessione). Si valuteranno nei prossimi anni le implicazioni che l’Action Plan avrà sul livello nazionale, anche alla luce di un cambio di temperie europea, con l’avvio della nuova legislatura. La “perimetrazione” dei soggetti dell’economia sociale sarà una sfida importante per il nostro Paese: in quale rapporto stanno i soggetti dell’economia sociale europea con gli enti del Terzo settore? Quali altri soggetti troveranno uno spazio di riconoscimento? C’è una domanda interessante da porsi. Ci si chiede, infatti, in che modo le misure europee troveranno spazio in Italia. A mio giudizio, anche la domanda opposta, in senso ascensionale, è molto interessante: quali misure nazionali troveranno spazio a livello europeo? Ad esempio, in tema di amministrazione condivisa, molte esperienze nazionali potrebbero trovare riconoscimento in Europa, anche al di là dei contenuti di quanto previsto dall’Action Plan.
Questa proiezione decennale in avanti, con lo sguardo retrospettivo al decennio appena passato, però, induce conclusivamente a una riflessione. La riforma del Terzo settore è stata una grande occasione di bilancio e di sistemazione della legislazione nazionale (e, a cascata, regionale e locale). Quasi ogni aspetto è andato al suo posto, con maggiore o minore difficoltà. Ma un certo fermento innovativo, che alcune indagini recenti iniziano a cogliere, sta andando avanti, sul versante delle forme giuridiche (sempre più liquide), delle attività svolte, delle forme di coinvolgimento delle persone. Ecco che il prossimo decennio, proprio a partire da questo grande bilancio del 2014-2024, con i suoi indubbi meriti e le sue difficoltà, offrirà nuove frontiere da varcare sul versante di come le comunità interpretano le loro libertà sociali.
* Scuola Superiore Sant’Anna, Centro di ricerca Maria Eletta Martini
© Foto in copertina di Massimo Alfano, progetto FIAF-CSVnet "Tanti per tutti. Viaggio nel volontariato italiano"