Le associazioni culturali e la riforma: ecco cosa cambia

Scegliere se entrare o meno nel terzo settore dipende da una serie di variabili fiscali. Tra le possibilità, quella di diventare associazione di promozione sociale oppure optare per un approccio più imprenditoriale. Tutto ciò che bisogna sapere per decidere bene

In Italia esiste un variegato mondo di organizzazioni non profit che operano nel mondo della cultura, dalle bande musicali, corali, compagnie di teatro amatoriale ma anche pro loco e tanto altro ancora. Con la riforma del terzo settore, gli enti che promuovono la cultura trovano pieno riconoscimento.

Sia il codice del terzo settore che il decreto sull’impresa sociale indicano infatti come attività di interesse generale:

d) le attività culturali di interesse sociale con finalità educativa;
f)  gli interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio;
i)  l’organizzazione e gestione di attività culturali di interesse sociale, incluse le attività editoriali;
j)  l’attività di radiodiffusione sonora a carattere comunitario,
k) l’organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse culturale;
z) la riqualificazione di beni pubblici inutilizzati o di beni confiscati alla criminalità organizzata.

Ma quali sono le prospettive delle associazioni culturali all’interno della riforma del terzo settore? Per quali realtà è essenziale valutare l’assunzione di tale qualifica? Come cambia la fiscalità?

Essere ente del terzo settore rappresenta senza dubbio una opportunità: la legge delega della riforma prevede che L'iscrizione nel Registro (…) è obbligatoria per gli enti del terzo settore che si avvalgono prevalentemente o stabilmente di finanziamenti pubblici, di fondi privati raccolti attraverso pubbliche sottoscrizioni o di fondi europei destinati al sostegno dell'economia sociale o che esercitano attività in regime di convenzione con enti pubblicied il codice del terzo settore prevede che le pubbliche amministrazioni coinvolgano gli enti del terzo settore nei percorsi di coprogrammazione e coprogettazione dei servizi ed attività che interessano anche il mondo culturale. Si pensi anche alla sperimentazione in Lombardia dei Pic - Piani integrati della cultura, finalizzati ad attuare, sia su scala territoriale che su tematiche prioritarie, interventi integrati di promozione del patrimonio culturale e di attività ed eventi culturali, per favorire processi di valorizzazione territoriale che coinvolgano anche ambiente, artigianato, formazione, istruzione, ricerca, turismo e welfare.

Le novità di natura fiscale

La riforma porta in sé però anche alcuni aspetti critici. Innanzitutto, le novità di natura fiscale introdotte avranno un pesante effetto sulle miriadi di associazioni che oggi garantiscono un’ampia offerta culturale. In secondo luogo, la circostanza che si parli non di attività culturali ma di attività culturali di interesse sociale potrebbe sollevare importanti dubbi interpretativi.

Con l’entrata in vigore delle disposizioni fiscali introdotte dal codice del terzo settore, le associazioni culturali non potranno infatti più beneficiare della decommercializzazione dei corrispettivi specifici versati dai propri soci per usufruire dei servizi istituzionali (in virtù alle modifiche apportate all’art. 148, terzo comma, del Tuir). Tali agevolazioni saranno infatti condizionate alla circostanza che i sodalizi si qualifichino come associazioni di promozione sociale.

Le associazioni culturali devono quindi verificare se possono assumere la veste di associazioni di promozione sociale, come le associazioni già iscritte nel registro della promozione sociale devono verificare se permangono le condizioni per mantenere detto status: cambiano infatti i relativi presupposti.

Un’associazione si può infatti qualificare come associazione di promozione sociale solo se:

  • presenta almeno sette soci persone fisiche o tre associazioni di promozione sociale (art. 35 Cts);
  • si avvale in modo prevalente dell'attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati (art. 35 Cts);
  • assume lavoratori dipendenti o si avvale di prestazioni di lavoro autonomo o di altra natura, anche dei propri associati solo quando ciò sia necessario ai fini dello svolgimento dell'attività di interesse generale e al perseguimento delle finalità (art. 36 Cts);
  • il numero dei lavoratori impiegati nell'attività non sia superiore al 50% del numero dei volontari o al 5% del numero degli associati (art. 36 Cts).

Molte associazioni culturali potrebbero non presentare tali requisiti.

Si pensi alle realtà che hanno una base associativa limitata perché nascono per svolgere attività culturale diretta alla collettività, magari in regime di convenzione con l’ente locale, come le associazioni che gestiscono servizi educativi per l’infanzia e l’adolescenza o quelle che garantiscono l’animazione culturale durante l’estate. Si pensi anche alle scuole di musica che devono avvalersi di un numero rilevante di collaboratori per promuovere l’educazione dei diversi strumenti musicali nell’ottica di promuovere la musica orchestrale: in questo caso diventa difficile garantire che il numero di collaboratori sia inferiore al 5% del totale dei soci, così come non è facile garantire il coinvolgimento di volontari continuativi ed attivi in misura superiore al doppio dei collaboratori retribuiti.

Cosa fare quindi in questi casi?

L’associazione potrà valutare se:

  1. acquisire la qualifica di Aps incrementando il numero dei soci e/o dei volontari, od optare per la fusione con altra associazione per incrementare, di fatto, il numero dei soci;
  2. qualificarsi come ente del terzo settore generico;
  3. assumere la qualifica di impresa sociale, mantenendo la qualifica di associazione o effettuando una trasformazione eterogenea da associazione a società anche cooperativa.

La prima soluzione richiede un cambiamento organizzativo importante. Diverse sono le associazioni in cui i soci sono culturalmente orientati ad un’attività rivolta alla collettività e non ai soci così come le associazioni che presentano difficoltà nel coinvolgere i soci nella realizzazione stessa delle attività.

Resta sicuramente la soluzione più semplice e che potrebbe essere velocizzata da un processo di fusione con un’altra associazione. L’istituto trova oggi una puntuale definizione nell’articolo 42bis del Codice civile, introdotto proprio dal codice del terzo settore. Si tratta in questo caso di un percorso che presuppone un rapporto fiduciario ed una identità di visione tra le associazioni interessate.

Al di là del vantaggio legato alla fiscalità diretta (artt. 79 e 85 Cts), alla liquidazione delle imposte (l’art. 86 prevede per le Aps un regime forfettario analogo a quello della legge 398 qualora i ricavi commerciali non superino i 130.000 euro) e alla possibilità di accedere in misura determinante a contributi pubblici e privati, non bisogna dimenticare che l’assunzione della qualifica di Aps garantisce anche la possibilità di partecipare ai percorsi di coprogrammazione e coprogettazione con la pubblica amministrazione e di stipulare convenzioni (artt. 55 e 56 Cts), di incentivare fiscalmente le donazioni (art. 83 Cts) anche con lo strumento del social bonus (art. 81 Cts) quando finalizzate al recupero degli immobili pubblici inutilizzati e di beni mobili e immobili confiscati alla criminalità organizzata e assegnati in gestione all’Ets, così come la possibilità di utilizzare la sede a prescindere dalla relativa destinazione urbanistica laddove non vi si svolgano attività produttive (art. 71 Cts).

E se diventassi un ente del terzo settore generico?

L’opzione è percorribile ma significa perdere le agevolazioni fiscali sui corrispettivi specifici versati dai soci e se queste entrate, che assumono quindi la qualifica di entrate commerciali (art. 79 comma 6 Cts) sono prevalenti, ci troveremmo di fronte ad un ente commerciale al quale - a prescindere dal volume di ricavi commerciali - sono precluse le agevolazioni legate al regime fiscale forfettario (art. 80 comma 1 Cts) e le agevolazioni sotto il profilo contabile (art. 13 comma 4 Cts).

La via alternativa dell’impresa sociale. Quando conviene?

L’ente del terzo settore che assume la qualifica di ente commerciale e che si avvale prevalentemente dell’apporto di lavoratori potrebbe però assumere la qualifica di impresa sociale. Ci troveremo di fronte ad un’associazione che, seppur beneficiaria di diverse agevolazioni fiscali (sotto il profilo degli incentivi alle donazioni, ex art. 83 Cts, delle imposte indirette, ex art. 82 Cts, delle imposte dirette, art. 18 dlgs 112/2017) presenta una organizzazione molto più complessa, dovendo, a prescindere dai volumi di attività, nominare i sindaci, adottare una contabilità ordinaria, approvare, oltre al bilancio civilistico, il bilancio sociale ed effettuare la valutazione di impatto sociale. Questi adempimenti determinano un aggravio di costi gestionali ed economici difficile da sostenere se si tratta di una piccola organizzazione.

La scelta da operare non è pertanto semplice ma è possibile cambiare idea in maniera indolore. Un’Aps potrà infatti assumere nel tempo la qualifica di Ets o di impresa sociale migrando tra una sezione e l’altra del registro senza dover devolvere il patrimonio (art. 50 Cts).

Si evidenzia a margine che erano stati manifestati dei dubbi rispetto alla possibilità per le Istituzioni culturali destinatarie di contributi di cui alla legge n. 534 del 17 ottobre 1996, e di altre disposizioni legislative, di assumere la qualifica di Ets, dubbi di recente dissipati dal Ministero dei Beni culturali con la circolare n. 14510 del 23/7/2019. Rimangono invece esclusi dal terzo settore gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllo da parte di pubbliche amministrazioni per espressa previsione normativa (art. 4 c. 2 Cts).

Si conclude ricordando che le novità fiscali a cui si fa cenno entreranno in vigore solo dall’esercizio successivo a quello di funzionamento del Runts, acquisito l’assenso della Commissione europea sui nuovi regimi fiscali, fatta eccezione per alcune agevolazioni già applicabili alle organizzazioni attualmente iscritte nei registri delle Aps, organizzazioni di volontariato e Onlus (artt. 81, 82, 83 e 84, comma 2, 85 comma 7 Cts). Le associazioni culturali hanno quindi ancora un po’ – ma non troppo – tempo per decidere quale strada intraprendere.

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