Come evitare il rischio di ridurre l’amministrazione collaborativa ad un “tecnicismo giuridico”
Anche la pubblica amministrazione, come il Terzo settore, corre il rischio di ridurre l’amministrazione collaborativa ad un “tecnicismo giuridico” – un modo diverso e più semplice per fare le stesse cose di prima – anziché come sfida organizzativa e culturale.
Di queste difficoltà si trova testimonianza, ad esempio, nei tanti procedimenti di co-progettazione di questi anni che, a ben vedere, richiamano troppo da vicino affidamenti tramite appalto: ciò accade quando gli interventi da realizzare sono nei fatti già individuati dagli avvisi di co-progettazione, talvolta anche specificando caratteristiche professionali, orari ed altri dettagli organizzativi; quando il tempo effettivo di confronto nei tavoli è limitato e gli esiti fortemente indirizzati dall’amministrazione; quando sollecitano il Terzo settore a competere per farsi scegliere come partner migliore, anziché ad integrare le proprie forze.
È allora necessario, da parte dell’ente pubblico, abbracciare con decisione la cultura dell’amministrazione condivisa, ben sapendo – questa è la testimonianza di tanti amministratori pubblici impegnati in esperienze di co-progettazione – che il “lasciare spazio” alla propositività del Terzo settore non costituisce una diminuzione della prerogativa pubblica, ma anzi apre spazi molto più ampi per un’amministrazione che voglia investire intelligenze ed energie nell’innovare e migliorare la propria azione.
I procedimenti di co-programmazione e co-progettazione assegnano alle amministrazioni pubbliche una pluralità di momenti in cui esercitare una delicata responsabilità: in primo luogo la definizione iniziale degli obiettivi, che racchiude e sintetizza le scelte politiche dell’ente; seguono l’individuazione dei criteri per l’ammissione degli enti del Terzo settore ai tavoli, la partecipazione costruttiva ai tavoli di lavoro condividendo dati e informazioni, la valutazione dell’aderenza del progetto finale agli obiettivi inizialmente posti. Tutto ciò richiede un’amministrazione pubblica competente, capace di esprimere uno sguardo di lungo periodo e di immaginare il futuro del proprio territorio, tutt’altro quindi che un soggetto passivo ed espropriato delle proprie responsabilità.
Se prima si sono delineate le fasi di un procedimento di amministrazione condivisa che richiedono il pieno protagonismo della pubblica amministrazione, va al tempo stesso sviluppata una capacità diversa, da mettere in campo nel momento centrale di un procedimento collaborativo costituito dai tavoli di lavoro: lì si tratta invece di essere in grado di animare, coordinare, facilitare; di far emergere e sviluppare le idee di tutti e poi di consentire al gruppo di lavoro di arrivare ad una propria determinazione. Non a caso in molti casi gli enti che co-programmano e co-progettano scelgono di farsi supportare da facilitatori, essendo la fase dei tavoli di lavoro, a differenza di quelle prima richiamate, tipicamente “orizzontale” e richiedendo quindi la piena espressione dei punti di vista del Terzo settore.
Un altro elemento delicato riguarda gli aspetti economici. È assolutamente da contrastare l’idea che l’orientamento verso l’amministrazione condivisa derivi dal fatto che “non ci sono più soldi” e si accompagni quindi con la diminuzione dell’investimento pubblico, pretendendo che i soggetti del Terzo settore conferiscano le risorse mancanti. Tale prospettiva, oltre ad essere scorretta in quanto l’amministrazione condivisa trova origine in una concezione sussidiaria, indipendente dalla presenza o assenza di risorse, ha l’effetto di rendere l’amministrazione condivisa detestabile sia in sede di valutazione delle politiche pubbliche, sia al Terzo settore: in sostanza produce artificialmente l’associazione tra amministrazione condivisa, disimpegno delle istituzioni e caduta dei diritti.
L’amministrazione condivisa è invece una grande sfida organizzativa e culturale, che richiede al contrario il massimo investimento, sia economico che organizzativo, da parte di tutti i soggetti coinvolti e per prima dell’amministrazione che guida il procedimento; è poi vero che, se tale condizione è soddisfatta, la forza dei partenariati è tale da riuscire a reperire consistenti risorse aggiuntive attraverso attività economiche, progettazione europea e regionale o presso istituzioni filantropiche, raccolta fondi e volontari, ecc. Questo, nelle migliori esperienze di amministrazione condivisa, rappresenta un valore aggiunto incomparabile, mai conseguito con dinamiche di competizione e aumenta effettivamente e in modo decisivo – a differenza del cosiddetto “co-finanziamento” (pratica di fatto inutile e controproducente per cui si rimanda a questo articolo) – le risorse a disposizione; certo, richiede di scommettere in modo pieno e leale sulle possibilità di collaborazione, co-investendo reciprocamente su un obiettivo condiviso.
Quanto qui brevemente accennato evidenzia in modo chiaro la necessità che pubbliche amministrazioni e Terzo settore avviino percorsi formativi comuni perché se, ad oggi, il dato giuridico può dirsi in qualche modo consolidato, ciò non esaurisce in alcun modo la necessità di profondo cambiamento culturale e organizzativo, che non può che crescere grazie al lavoro comune dei soggetti pubblici e del Terzo settore coinvolti insieme nella ricerca dell’interesse generale.